“Non ha senso lamentarsi di ciò che non possiamo cambiare. Non ha senso lamentarsi di ciò che possiamo cambiare”. (Patricie Holečková)

Che cos’è il lamentarsi? Il termine italiano “lamento” viene fatto derivare dal latino claméntum (stessa radice di “chiamare” o “clamore”) = grido, esternazione sonora di dolore e cordoglio. Quindi una prima caratteristica del lamentarsi è di essere cioè una manifestazione di contrarietà espressa in modo da richiamare l’attenzione altrui. Ne consegue che la lamentela non è un’emozionalità individuale, bensì relazionale: ogni volta che ci lamentiamo ci stiamo lamentando di qualcosa con qualcuno, stiamo utilizzando la lamentazione come precisa strategia di relazione (a livello implicito o esplicito).

Il valore relazionale e sociale della lamentela è ben visibile sia quando essa viene agita sul piano della relazione duale/privata, che su quello della dimensione più collettiva.

Pensiamo ad esempio ad studente universitario che non fa che lamentarsi con altri di quanto il professore sia ingiusto o esigente, di come il sistema universitario non gli fornisca gli strumenti adeguati, di quanto carenti o lacunosi possano essere i programmi didattici …  Non stiamo dicendo che tutto ciò non possa anche essere vero. Ma che lamentarsi è la controparte del non fare nulla per cambiare la propria condizione: è probabile che qualunque consiglio proposto venga rifiutato o minimizzato dallo studente, che utilizzerà il suo ruolo di vittima come “rifugio” per addossare ad altri la responsabilità delle difficoltà che incontra lungo il suo percorso universitario.

La stessa cosa può accadere sul versante collettivo: al netto di tante ingiustizie e iniquità sociali, di tanta inefficienza amministrativa e burocratica; una gran parte delle persone possono trincerarsi nel lamento collettivo (che fornisce anche senso di appartenenza ad un gruppo contro un nemico comune) alimentando la posizione emozionale di impotenza a fare alcun che.

La lamentela rischia di “cronicizzarsi”, quando diventa l’atteggiamento stabile con cui una persona o un gruppo affronta un problema; diventa allora una trappola: invece che mezzo per cambiare le cose, diventa il “fine”.

Lamentarsi implica non accettare le difficoltà della vita e mettersi a priori in una posizione emozionale di impotenza. Ma, potremmo un po’ provocatoriamente domandarci, perché mai ci dovrebbero essere risparmiate le contrarietà/ingiustizie della vita?

Se colludiamo con questo non facciamo altro che avallare la nostra posizione di incompetenza: tutti gli ostacoli dovrebbero venirci risparmiati perché non possiamo sopportarli, non siamo in grado di affrontarli?

Come smettere di lamentarci e invertire la rotta? Prendendo anzitutto coscienza del fatto che si tratta di una posizione emozionale, non della realtà dei fatti: sentirci impotenti non significa che effettivamente lo siamo.

Modificare questa posizione richiede la fatica di tollerare la mancanza, la perdita (di un’aspettativa, di un diritto, di uno stato di cose) senza poterla né delegare in toto ad altri (i “colpevoli” contro cui si scaglia il lamento) né rimpiazzare istantaneamente. È la fatica di saper sostare nell’assenza (di qualcuno/qualcosa), indispensabile in fondo per contattare il nostro desiderio e ricostruire una nostra progettualità.

Lamentarci ci chiude in una posizione di immobilità, confrontarci con l’assenza di ciò che ci è negato ci muove ad una (nuova) prospettiva su noi stessi.

(tratto dall’articolo di Cristina Rubano “Lamentarsi: perché lo facciamo e come possiamo smettere”)

(fonte foto: NBC)