“L’arte di imporre come vere le proprie tesi è invece il fine della dialettica.” (A. Schopenhauer)

È quasi una seconda natura per un leader “che si rispetti” impegnarsi ad avere ragione sempre, in ogni circostanza: questo atteggiamento si riflette di conseguenza nella struttura aziendale, dove vige il principio che la cosa più importante per ogni collaboratore sia avere sempre ragione e dimostrarlo dinanzi agli altri. E passa in second’ordine l’abitudine di discutere per scambiarsi opinioni, valutarle, metterle a confronto, in modo aperto e senza contrasti o esigenze di eccellere.

Le organizzazioni che si focalizzano sul bisogno di avere ragione in genere puntano tutto sul passato, sono pronte a difendere le posizioni conquistate ma meno propense a esplorare nuove soluzioni, evitando il terreno insicuro delle ipotesi di un eventuale cambiamento.

Il clima di queste aziende, inoltre, è decisamente pesante: i dipendenti si sentono insicuri, sulla difensiva, dovendosi continuamente guardare alle spalle, pronti a correggere qualsiasi minimo errore.

Eppure, la “trasformazione digitale” ci sta facendo capire che è sempre più necessario mostrare apertura ed elasticità mentale, perseguire un pensiero in grado di interagire con altre idee e altre persone in modo libero e fruttifero, allo scopo di avvicinare e non dividere.

Chi ha il compito di gestire le persone nelle organizzazioni deve essere per sua natura inclusivo, deve fare in modo che tutti possano esprimersi liberamente, perché è il solo modo affinché ognuno sviluppi al massimo le proprie potenzialità.

Le nuove tecnologie, inoltre, attenuano i tradizionali rapporti gerarchici a favore di rapporti sempre più orizzontali: questo rende necessaria l’esigenza di fare squadra senza escludere nessuno, di accettare le differenze, di abbandonare la tentazione di dover dimostrare a ogni costo di avere ragione.

Bisogna opporsi a una deriva culturale che non porterà a nulla di costruttivo e cercare di rafforzare un atteggiamento sempre più conciliante e non divisivo.